La storia de L'ultimo dominatore dell'aria potrebbe benissimo essere tratta da uno dei fumetti che ossessionavano il personaggio di Samuel L. Jackson in Unbreakable. L'idea della predestinazione, le responsabilità dell'eroe e il peso dell'armonia del mondo, gravano sulle coscienze degli eroi di Shyamalan perfino da prima che lo Spider-Man di Sam Raimi vi intessesse sopra la sua tela. È per questo che, nel passare dalle fairy tales più oscure e autoriali a quelle improntate al blockbuster per l'infanzia, Shyamalan si è approcciato alla storia di un giovane bonzo incapace di accettare il suo destino di messia e si è addentrato nella mitologia pop di un cartone animato figlio della globalizzazione, dove le filosofie orientali confluiscono nello schema del romanzo di formazione occidentale. La matrice in questione si chiama Avatar (dal nome dell'incarnazione della divinità induista) e, curiosamente, è proprio nel tentativo di accostarsi all'estetica tecnocratica dell'omonimo film di James Cameron che L'ultimo dominatore espone i propri difetti. Difetti relativi agli eccessi di zelo di un autore impaurito dalle nuove tecnologie più che da fantasmi, alieni o forze oscure della natura; incapace di opporsi a un uso posticcio e autolesionista della stereoscopia o di tagliare il cordone ombelicale dei rimandi obbligati al Signore degli anelli.
Ma se il salto in avanti verso la contemporaneità non gli riesce pienamente, quello teso all'indietro verso il fantasy puro e godibilmente kitsch del passato risulta invece particolarmente aggraziato. Shyamalan evita la fraseologia esoterica e la solennità ingombrante dei fantasy aggiornati all'era di Peter Jackson. Del cartoon originale conserva l'elementarità dell'intreccio (un mondo diviso fra i cattivi della Nazione del Fuoco e i buoni della Tribù dell'Acqua) e la complessità dei caratteri (i dilemmi di Aang e i tormenti della nemesi di Zuko, il figlio disconosciuto del Re del Fuoco), per mettere enfasi sul contenuto morale della storia. Per questo, anziché privilegiare l'estetica del montaggio brutale, le sue sequenze d'azione si costruiscono in post-produzione come un lungo e sinuoso piano-sequenza, un movimento perpetuo che scandisce e isola il peso e il tempo di ogni mossa delle varie arti marziali praticate. Nell'estrema linearità del racconto, anche i flashback vengono introdotti con l'esplicitazione “démodé” del primo piano, così che ogni elemento narrativo sia in armonia con il tutto. In quanto “ultimo dominatore” delle fiabe nel cinema contemporaneo, Shyamalan tenta di riportare il fantasy alla sua essenza, a un livello di fruibilità tradizionale e a un'etica genuina. Se fallisce, lo fa solo laddove tenta di “dare profondità” alle trame oscure della perdita dell'innocenza attraverso la sofisticazione delle protesi tecnologiche.